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24 Aprile 2020

Smart working: quando la tecnologia ci “rende umani”

Rapporto tra uomo e tecnologia: ci sono diverse scuole di pensiero in merito, opposte l’una all’altra e con molte sfumature al loro interno. Siamo infatti abituati a concepire la tecnologia come elemento creato artificialmente per sottrarre l’essere umano ai suoi limiti. Nel tempo, però, abbiamo assistito a dibattiti e dimostrazioni accurate del fatto che in realtà tutto quanto è tecnologia esalterebbe la nostra umanità. Ecco dunque quando la tecnologia, dello smart working in questo caso, ci “rende umani”.

Tecnologia nel lavoro: lo smart working
Quando l’emergenza COVID-19 ha mosso i primi passi e ci siamo visti costretti ad un utilizzo dello smart working, la tecnologia è diventata preponderante nella nostra vita. Da ricerca di mercato di BVA-Doxa condotta a metà marzo su un campione di 301 aziende, è emerso che il 73% di queste ha adottato misure di smart working massivo. Di questo 73%, il 90% è composto da aziende multinazionali (forse già più avvezze alla “remotizzazione” per le collaborazioni quotidiane a distanza), il 67% da aziende italiane con sedi estere e il 59% da aziende italiane. Chiaramente la modalità massima di smart working non dipende solo dalla volontà dell’azienda, ma anche dalla tipologia di funzioni aziendali interne. Esemplificando in modo molto chiaro: un’azienda produttiva non potrà mai demandare la produzione dei collaboratori da casa. Da stime del Politecnico e del Ministero, rispettivamente, siamo a conoscenza del fatto che in periodo pre-COVID-19, 570mila lavoratori in Italia già praticavano lo smart working; a metà marzo erano aumentati di 554.754, quasi raddoppiando il totale – numero tuttora relativamente basso se fonti come Consulenti del Lavoro stimano che ci sono 8,2 milioni di dipendenti che potrebbero lavorare da remoto.
Smart working: il personale si fonde con il professionale
Chi ha la possibilità di lavorare in modalità smart, o meglio home working per come lo possiamo intendere oggi, si sta accorgendo di come le distanze personali e professionali si riducano. Siamo stati abituati a dividere la sfera personale da quella professionale, ma quanto lo smart working le ha fatte convergere? Attraverso le riunioni da remoto, “entriamo nelle case” di candidati e clienti, sentiamo i sottofondi dei giochi dei rispettivi figli o rumori delle varie attività, non vediamo sfondi asettici di ufficio ma ambienti di casa e talvolta passaggi alle spalle del resto della famiglia; condividiamo aspetti che mai ci saremmo immaginati prima. La tecnologia ci permette di lavorare ovunque, ma contemporaneamente abbatte la facciata professionale, portandoci a instaurare rapporti in cui ci esponiamo maggiormente come individui. La situazione di emergenza ci induce a sentirci tutti più umani, ad abbattere qualche formalismo e far trasparire un po’ più di noi; è così che, facendo smart working, la tecnologia  ci rende più umani.
Smart working: come un expat
Paradossalmente, stare chiusi in casa è analogo ad essere un expat ( leggi: “Aziende italiane all’estero: il ruolo cruciale dell’Expat”). Da un trasferimento all’estero consegue che si affrontino una serie di procedure e difficoltà di ambientamento: grazie a chi vi è passato prima di noi, possiamo avere informazioni più efficaci. Questo porta a creare con naturalezza una comunità che si aiuta professionalmente e personalmente. La stessa percezione la viviamo ora; siamo tutti nella medesima situazione di difficoltà e ci avviciniamo spontaneamente gli uni agli altri, facendo emergere in modo naturale tutti gli elementi di soft skill che più tendiamo solitamente ad adattare nell’ambito strettamente professionale.   Leggi anche: E se l’intervistatore fosse un Agente Virtuale? Dopo l’emergenza Coronavirus aumenteranno i CV non lineari: come leggere tra le righe? Il rischio di impresa ai tempi del Coronavirus   Il blog di Hunters Group: news dal mercato, consigli sul lavoro, notizie sulla vita aziendale

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