
Lo scopo del carcere è restituire alla società dei buoni cittadini
Il direttore di Bollate: servono risposte costruttive. Imprevedibile il caso De Maria
La Stampa, 8 giugno 2025
Giorgio Leggieri: “Servono risposte costruttive. Imprevedibile il caso De Maria”.
La tragedia di Emanuele De Maria, omicida e suicida è stata strumentalizzata e deformata da chi ha utilizzato la lente sfuocata dell’indignazione facile per modesti bottini politici e di revisionismo del lungo e tortuoso percorso di reintegrazione finora compiuto. De Maria era detenuto nel carcere di Bollate, istituto modello con il più basso tasso di recidiva di reati in Italia. La storia di De Maria non era prevedibile, il fascicolo era ricco di relazioni positive dei suoi miglioramenti. Direttore è Giorgio Leggieri, in prima linea per mettere la dignità di chi vive dietro le sbarre al centro di programmi e iniziative.
Un ministro della Giustizia francese sosteneva: “Non esistono criminali, ma solo persone che hanno commesso un crimine”…
“Condivido pienamente questo approccio che focalizza l’attenzione sulla persona e sul comportamento deviante messo in atto più che sull’etichetta di deviante attribuitagli dalla reazione che un certo contesto sociale, in un determinato momento storico, può avere nei confronti del fatto reato commesso. Solo se al centro della nostra osservazione resta la persona nella sua individualità e nel sistema di relazioni con l’ambiente in cui vive, si può evitare, a mio parere, di scivolare nel rischio di creare lo stigma del criminale in quanto tale irrecuperabile e da emarginare che a sua volta finirebbe per rafforzare, nell’individuo stesso, quella condotta deviante che si vorrebbe eliminare. Se non dovessimo aprire una prospettiva di cambiamento nei confronti di tutti coloro che hanno commesso dei reati, seppur nella distinzione tra quelli che sono definiti reati “comuni” anche di particolare allarme sociale da quelli appartenenti alla criminalità organizzata, finiremmo paradossalmente con l’innescare un processo di de-responsabilizzazione, ottenendo pertanto una sorta di effetto boomerang: ovvero quello di portare il soggetto a continuare ad riorganizzarsi in modo deviante, in sostanza a fare la scelta più facile, quella anti- sociale che vorremmo neutralizzare”.
Molti, invece, sono a favore dell’inasprimento delle pene, altri per “buttare la chiave”…
“Il nostro sistema sociale oscilla perennemente tra due culture contrapposte: quella del “garantismo” a favore del primato delle garanzie individuali e dei diritti individuali e quella del “giustizialismo” a favore del primato della potestà punitiva dello Stato a discapito dei diritti di libertà della persona. Un conflitto insanabile tra due istanze che finisce con il mortificare sia la funzione principale e fondativa del processo penale che è quella di accertare la responsabilità di un fatto criminale sia la funzione rieducativa della pena detentiva gestita dall’Amministrazione Penitenziaria, a favore piuttosto di aspettative satisfattorie che pongono reo e Stato sullo stesso piano: quando così non è. Ecco, credo che dobbiamo sempre tenere in mente quanto la tutela della vittima debba essere perseguita attraverso in primis un giusto processo e successivamente attraverso una pena “utile” che per essere tale deve innescare un processo di cambiamento della persona”.
Il carcere che dirige si indica spesso come “modello”, su quali cardini si basa e si sviluppa?
“Fin dal momento della sua apertura (risalente a poco più di venticinque anni fa), troviamo la “reclusione ordinaria a trattamento intensificato”, ovvero apertura delle camere e tecnica di sicurezza interna secondo la cosiddetta vigilanza dinamica con il sistema delle pattuglie sulla falsariga dei poliziotti di quartiere. Oggi i requisiti essenziali di questo modello si possono sintetizzare in alcuni punti. Tempo di apertura delle camere per almeno dieci ore al giorno. Valorizzazione dei contenuti del tempo di apertura con lo sviluppo di attività articolate nell’arco della giornata. Accessibilità in autonomia a spazi comuni con specifica destinazione d’uso. Target di popolazione detenuta assegnata e quindi solo “condannati con sentenza passata in giudicato”, provenienti da altri istituti e non direttamente dalla libertà – e comunque dopo essere stati valutatati come idonei nell’istituto di provenienza per seguire percorsi più strutturati gestiti con una soglia maggiore di autonomia e responsabilizzazione”.
E come si sviluppa?
“Oggi la popolazione detenuta è composta da 1.384 persone per un modello integrato di lavoro sia all’interno che all’esterno dell’istituto. Il tasso d’occupazione è di oltre il 50% con un’aliquota di circa 392 persone alle dipendenze dirette di datori di lavoro privati. Di questi, circa 170 risultano fruire del lavoro esterno e circa 40 risultano appunto ammessi alla “semilibertà”. A questi si aggiungono 220 detenuti alle dipendenze sempre di privati, all’interno dell’istituto, nelle aree cosiddette “industriali” in cui le imprese hanno la propria sede operativa. Quindi, si punta alla maggiore professionalizzazione dell’offerta lavorativa con contratti a tempo indeterminato e l’obiettivo di aumentare l’ingresso del sistema imprese in carcere. Solo in questo modo si può pensare di prevenire la recidiva: un accompagnamento nei percorsi lavorativi che per esser efficaci devono costruirsi in maniera sempre più strutturata e qualificata durante la detenzione. Ed è un orgoglio che il tasso di occupazione aumenti gradualmente, segno che la sfida continua per costruire una pena “utile” per condannato e società civile. Solo così si può pensare di “restituire un buon cittadino” anziché un buon detenuto”.
Quali sono i dati che più la preoccupano?
“Desta preoccupazione sicuramente l’aumento di presenze di quella fascia di detenuti di età compresa tra i 18 e i 25 anni, rientranti nel circuito “giovani adulti” di cui molti provenienti dal Beccaria. Per loro si pone l’esigenza di un’offerta formativa e lavorativa mirata, una strategia trattamentale in grado di sollecitarne risposte costruttive, anche con l’ausilio dell’intervento tra “pari” con detenuti adulti che svolgono il ruolo di supporter”.
C’è una storia a lieto fine e quale l’ha particolarmente colpita?
“Una storia che direi di vera e propria rinascita è proprio quella di un giovane oggi ventottenne, entrato in carcere a 18 anni per scontare una pena di diciotto e giunto a Bollate nel 2021. Entra con un vissuto di rabbia e violenza proprio dell’ambiente di provenienza, per iniziare gradualmente ad abbracciare gli studi universitari, una volta giunto a Bollate, nell’ambito di un progetto con la Statale di Milano. L’incontro con i volontari di Seconda Chance, associazione fondata dalla giornalista Flavia Filippi che si occupa dell’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro, ha fatto il resto. Oggi è consulente assunto a tempo indeterminato nell’azienda milanese Hunters Group, holding nel campo della ricerca e selezione del personale a livello dirigenziale e fruisce della semilibertà dopo un percorso graduale. Credo sia una testimonianza tangibile di come un percorso trattamentale strutturato possa costituire una speranza concreta di reinserimento sociale, restituendo alla comunità un “buon cittadino”.
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