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05 Maggio 2022

Il futuro felice del Business

A cura di Chiara Bertoletti

Felicità è uno di quei termini che rischia l’eterna oscillazione tra due poli: da un lato, quello umile di frasi fatte e aforismi, spesso di erronea attribuzione, atti a una rapida condivisione social, dall’altro la trattazione aulica, poetica, tra rimandi all’epicureismo e a quel “barlume che vacilla” di Eugenio Montale. Eppure, tutto ciò che sta nel mezzo, tra il livello della banalità e quello della finezza intellettuale, è di norma il migliore strumento di supporto concreto alla quotidianità umana.

La felicità, intesa nel più ampio e pragmatico senso di benessere e soddisfazione duratura, non di emozione effimera legata a un picco ormonale, è un tema strategico della società e degli organismi che la compongono. Dunque delle aziende stesse, una questione non meramente psicologica, ma etica, economica e che attiene a tutte le sfere, interconnesse tra loro, del nostro intero ecosistema. Non è un caso che un Paese come gli Stati Uniti abbia inserito il diritto alla felicità già nella dichiarazione d’indipendenza del 1776.

Non è nemmeno un caso che dopo la pandemia, o meglio nel corso della stessa, ci sia stato il cosiddetto fenomeno della great resignation, il licenziamento in massa di coloro che, spinti da un evento “di rottura”, hanno rivisto le priorità e dato quindi un diverso valore al tempo, al lavoro e anche a loro stessi. L’addio alle rispettive aziende è stato globale e solo in Italia nel secondo trimestre del 2021 si sono dimesse oltre 484mila persone, facendo toccare il picco del fenomeno negli ultimi cinque anni (dati Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali).

Essere felici a queste persone non è più sembrato una romanticheria, ma un obiettivo tangibile da perseguire in linea con un diverso senso del vivere. Questo ha comportato una presa di decisione in primis sul lavoro, attività che occupa la larga maggioranza della nostra giornata e che è oggi oggetto di un importante cambiamento culturale: non si tratta più di scambiare il proprio benessere con “il posto fisso” da preservare a tutti i costi sacrificandosi, ancor più se si ha un “buono stipendio”.

Si tratta di vivere pienamente e con soddisfazione anche il proprio impiego, meglio ancora se condividendo valori e mission della realtà in cui si opera. Si tratta di vedere merito e produttività riconosciuti più del tempo speso alla scrivania e di un atteggiamento di compiacenza, di avere la libertà di autogestione di orari e luoghi in cambio di concentrazione, entusiasmo e qualità del lavoro svolto.

Oltre il concetto di welfare
La direzione più ampia è quella di andare oltre il mero concetto di welfare basato su benefit o iniziative one-shot, come la cena di Natale aziendale, per abbracciare una vera e propria metamorfosi verso quella che si definisce organizzazione positiva (org+). Quest’ultima non è una sorta di distopia del sorriso obbligato e non ha nulla a che fare con la commercializzazione delle emozioni, ma è un modello culturale e organizzativo strutturato, che interviene su persone e processi, poggiando sulla scienza della felicità, vista non tanto come emozione ma come competenza da sviluppare.

In questo contesto nascono anche nuove figure come i chief happiness officer (cho), meglio tradotti come manager della felicità organizzativa: non dei coach o dei santoni e nemmeno dei distributori di caramelle e barzellette, ma innanzitutto dei metodologhi dall’approccio razionale, come ci spiega bene Daniela Di Ciaccio, co-ideatrice del primo percorso di certificazione italiano per chief happiness officer.

“L’emergenza sanitaria -sottolinea Paola Marchesi, manager della divisione hr di Hunters– ha dimostrato quanto le figure deputate alla gestione delle risorse umane si siano rivelate strategiche per ogni tipologia di azienda, di qualunque settore e dimensione. Stiamo assistendo da tempo alla nascita di nuovi job title e mansioni che sottolineano la necessità di maggiore attenzione alle persone nell’organizzazione, al loro benessere all’interno dell’azienda”.

Non stiamo parlando di un orientamento di “buon cuore”, ma di un più ampio approccio di cui lo stesso business beneficia a livelli diversi: dalla capacità di innovazione a quella di attrarre talenti, passando per un impatto positivo sui profitti e sulla collettività. Numeri, letteratura ed esempi a conferma sono ormai tantissimi.

Il cambiamento è già iniziato e non è destinato a fermarsi. Basti pensare che secondo il Barometro della Felicità 2022 di Associazione Ricerca Felicità, il 40% degli italiani che hanno già un lavoro avrebbe in mente di cambiarlo nei prossimi 12 mesi. Questa percentuale è omogenea tra tutti i lavoratori e inferiore solo tra professionisti/partite Iva (28%), a conferma anche di come la libertà di gestione e di orari sia un plus sul quale è difficile retrocedere.

Le ragioni dell’infelicità, che ha peraltro dei costi alti e misurabili per l’azienda, sono tante: tra le principali, la mancanza di sviluppo personale o professionale e di carriera, la mancanza di riconoscimento e il più ampio burnout, un fattore ampiamente al primo posto tra i manager (oltre il 43%). Le indagini sul tema sono molte e ovviamente il peso attribuito a una motivazione o a un’altra cambia: quelli che sono i macro-trend comuni, tuttavia, non cambiano. Uno dei punti salienti di norma poco considerati, come insegna la letteratura anglosassone, è che spesso le persone valide non lasciano l’azienda, bensì i loro capi: lo stile manageriale, soprattutto per trattenere le generazioni giovani e intermedie poco disposte a tollerare un certo tipo di gestione, è determinante.

Tra gli errori principali citati da Travis Dredberry sull’Huffinghton Post vi sono il carico di lavoro eccessivo, il mancato riconoscimento dell’apporto dato dal dipendente, l’assumere e promuovere persone inadatte, ma anche il non lasciare che le stesse seguano le loro passioni e il non stimolare le loro abilità, creatività e intelletto.

 

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