
Trasparenza dei salari? Sì (ma senza vedere lo stipendio dei colleghi)
La nuova normativa europea contro la disparità di genere impone ai datori di lavoro di comunicare, su richiesta, informazioni sugli stipendi. Ma solo la media dei dati aggregati
Uno strumento contro il gender gap, non un lanciafiamme per incendiare le gelosie da ufficio. La direttiva europea sulla parità salariale tra uomini e donne (la n.270 del 2023) rinforza, e di molto, la ‘trasparenza retributiva’ ma, ve lo diciamo subito: no, non potrete sapere quanto guadagna il vostro vicino di scrivania. Il sogno di scoprire lo stipendio del collega antipatico per poter andare dal capo a chiedere un aumento resterà tale, il tabù non cadrà neanche con l’entrata in vigore delle nuove regole (tra un anno, giugno 2026). Studiate per mettere un freno alle disparità di genere, imponendo una serie di obblighi ai datori di lavoro, ivi compreso quello alla trasparenza, ma senza derogare al diritto alla privacy dei singoli lavoratori. La riservatezza che il datore di lavoro è tenuto a rispettare sui dati personali del dipendente ha infatti sempre ricompreso anche il “segreto salariale”, perché lo stipendio è sempre stato considerato un dato personale a tutti gli effetti, alla stregua ad esempio delle condizioni di salute. Ora, anzi tra 12 mesi, le cose cambieranno, ma solo con lo scopo di superare le disparità di genere: se i dati non emergono mai, infatti, difficile combatterla.
Informazioni in forma aggregata e anonima
L’avvocato Giampiero Falasca, giuslavorista dello studio DLA Piper, spiga a Sky TG24: “Ogni lavoratore – oppure i rappresentanti dei lavoratori, come le rappresentanze sindacali – può chiedere informazioni sui livelli retributivi. Tuttavia, queste informazioni devono essere fornite in forma aggregata e anonima, suddivise per genere, per ciascuna categoria professionale o per ciascun ‘lavoro di pari valore’. Ciò significa che si potranno conoscere, ad esempio, le retribuzioni medie degli uomini e delle donne che svolgono mansioni analoghe, ma non l’esatto ammontare della busta paga del singolo collega”. E neanche dell’attempato vicedirettore o del giovane neo-assunto: la richiesta può essere fatta solo per colleghi di pari livello di mansioni. E l’azienda ha due mesi di tempo per fornire la risposta. “Non si può chiedere quanto guadagna il singolo collega – conferma a Sky TG24 Maurizio Del Conte, docente di diritto del Lavoro all’Università Bocconi – ma si possono chiedere informazioni anche di dettaglio su ruoli analoghi, per poter fare una comparazione con quanto attribuito, in media, agli altri colleghi. Si prevede poi un’ulteriore possibilità di chiedere altre specificazioni, ad esempio potrei chiedere quanto viene pagato come minimo o massimo per una singola voce del cedolino, come gli straordinari o i premi di risultato, disaggregando insomma le diverse voci dello stipendio. Sempre restando la non riconducibilità a una singola persona”.
Individuare eventuali disparità sistemiche
Ancora Falasca: “Conoscere i dati aggregati aiuta a individuare eventuali disparità sistemiche, ma non incide sul diritto alla riservatezza delle singole retribuzioni. Questa conoscenza potrebbe, peraltro, avere un forte impatto: se le disparità di salari tra i generi per mansioni o lavori di pari valore fosse superiore al 5%, l’azienda dovrebbe attivare un ‘piano di rientro’ da concordare con i sindacati”. Sull’efficacia delle nuove norme (che vanno ancora dettagliate dal legislatore nazionale, da qui al giugno dell’anno prossimo) è ottimista anche Del Conte: “Per combattere il gender gap abbiamo finora solo dati statistici aggregati, con questa normativa avremo i dati sulle singole aziende, quindi può essere efficace: consentirà di capire dove si concentrano maggiormente le disparità, se ad esempio in posizioni di vertice o più basse, in che ruoli, insomma farà più luce. Sarà anche un elemento che consentirà di scoprire il comportamento del datore verso i propri dipendenti – aggiunge Del Conte –: la legge non impone che si trattino tutti i lavoratori allo stesso modo, ma dietro il principio di libertà di impresa, e invocando la privacy, si celano spesso situazioni di opacità! D’ora in poi, l’azienda avrà un obbligo maggiore verso la propria comunità di lavoratori, dovrà spiegare le proprie politiche retributive, perché ci sono eventuali disequilibri, in pratica il datore dovrà assumersi le proprie responsabilità”. Positivo anche il giudizio di Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group: “Negli ultimi tempi sono stati fatti innegabili passi in avanti, ma resta ancora molto da fare soprattutto per quel che riguarda la trasparenza e l’accessibilità alle informazioni legate alle retribuzioni all’interno delle aziende. La nuova direttiva europea rappresenta quindi un’opportunità concreta per colmare, una volta per tutte, il divario di genere e per avere salari più equi. È un’opportunità che non possiamo permetterci di non cogliere”.
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