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08 Novembre 2023

Una bella sciacquata di rosa

Si fa presto a sbandierare la parità di genere, ma alzando il tappeto si trova la polvere. Eppure non è difficile allenare lo sguardo per scovare il pinkwashing dove meno ce lo aspettiamo. 

Di Marina Marinetti

Si legittima la propria attività con iniziative simboliche per rispondere alle richieste di stakeholders e regolatori. 

Qual è quella celebre casa di moda, la prima ad aver ottenuto la Certificazione della parità di genere, che dopo aver stabilito nel 2015 come obiettivo l’eliminazione del gender pay gap, nel proprio report d’impatto scrive in questi otto anni ha “iniziato ad analizzare la gender pay parity in più di 45 Paesi?” E chi è quel gestore di concessioni autostradali e aeroportuali “premiato” per le sue politiche nella parità di genere con l’inserimento nel Gender Equality Index di Bloomberg che dopo il delisting ha nominato un Cda composto da soli uomini? E qual è quella banca che dopo aver sottoscritto il Ceo Champion Commitment “Towards the Zero Gender Gap”, prima di deliberare un aumento del 30% del compenso del proprio a.d. ha accolto le dimissioni immediate dal Cda del(la) presidente del comitato remunerazione (donna), sostituendola dopo qualche giorno con un uomo? Si dice il peccato, ma non il peccatore (però chi cerca, trova). « È chiaro che lo applichiamo bene – il patriarcato, ndr -, ma lo nascondiamo ancora meglio » fa dire Greta Gerwig nel film Barbie al Ceo di Mattel, uomo, che vuole essere chiamato “madre”. 

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Il campanello d’allarme del pinkwashing deve suonare ogni qualvolta un’azienda sbandiera il fatto di avere donne come maggioranza dei propri dipendenti e poi fornisce anche il dato sul gap salariale, ammettendo di pagarle meno. 

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Si fa ma non si dice 

La disparità salariale è un po’ il segreto di Pulcinella e il 30 marzo (anche se non se n’è accorto nessuno) il Parlamento Europeo ha approvato in prima lettura una direttiva che punta a garantire la parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore tra uomini e donne (“principio della parità di retribuzione”) attraverso una maggiore trasparenza retributiva e il rafforzamento dei relativi meccanismi di applicazione. Questa spinta alla trasparenza potrebbe essere, quindi, un deterrente allo squilibrio di retribuzioni anche perchè, stabilisce la norma, che chi ha subìto una discriminazione retributiva basata sul genere avrà diritto a ottenere un risarcimento che comprende il recupero totale delle retribuzioni arretrate (con bonus relativi) e anche un indennizzo per i danni causati. Toccherà alle aziende, inoltre, dimostrare di non aver violato queste norme. Ma non è tutto oro il rosa che luccica. «Non c’è ancora un obbligo di legge», spiega Joelle Gallesi, Managing Director di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale qualificato. « La Direttiva, infatti, entrerà in vigore il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea e, entro tre anni dall’entrata in vigore, gli stati membri (Italia compresa) dovranno necessariamente adeguarsi. È importante anche precisare che cosa si potrà fare: sarà possibile chiedere al datore di lavoro di conoscere le retribuzioni medie e aggregate dell’azienda, ripartite per categorie (quindi i livelli retributivi medi, ripartiti per sesso e categorie tra loro equiparabili), ma continueremo a non sapere quanto guadagna il nostro vicino di scrivania e lui a non sapere quanto guadagniamo noi ». Senza contare che basta modificare un job title et voilà: il pinkwashing è servito. 

 

 

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