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13 Marzo 2023

Al puzzle delle figure mancanti soluzioni da professionisti

Tra assenza di candidature e preparazione inadeguata, non si trova quasi un lavoratore su due. In attesa che migliori l’orientamento e nascano i giovani di domani, le aziende devono imparare ad affinare le capacità di ricerca e attrattività

In Italia ci sono tante aziende che nonostante tutto – il rincaro dell’energia e delle materie prime, il paventato ritorno della recessione, la solita lotta con la burocrazia… – vogliono assumere. Ma non ci riescono, perché fanno sempre più fatica a trovare le figure professionali che cercano. Se questo succedeva già nel 38,6% dei casi a gennaio del 2022, secondo il bollettino del sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal, nel primo mese di quest’anno si è saliti al 45,6%: in un solo mese sono 230mila i lavoratori da assumere che non si trovano, dopo che nel 2022 sono stati circa due milioni. Quel che è peggio, per le imprese la mancanza di candidature, il cosiddetto shortage, pesa più del doppio rispetto alla preparazione ritenuta inadeguata, detta mismatch: 27,8% contro 13,5% (mentre il 4,3% dei lavoratori non si trova per altri motivi). Come spiega Tiziano Treu nell’intervista che trovate nelle prossime pagine, per incidere su questo scollamento tra domanda e offerta di lavoro si dovrebbe investire in orientamento degli studenti e in natalità, perché i giovani ormai sono troppo pochi. Ma le imprese non possono attendere che i maturandi siano avviati verso facoltà o Its più vicini alle loro esigenze, da cui usciranno si spera fra qualche anno, né tantomeno che una politica di sostegno alla famiglia produca i suoi frutti in termini di nuovi giovani fra 4 o 5 lustri. Hanno bisogno dei lavoratori oggi, possibilmente di quelli bravi. E siccome la formazione dei dipendenti all’interno dell’azienda, di cui parleremo più avanti, è utile e necessaria ma non sufficiente, non resta che attrezzarsi per affinare capacità di ricerca e attrattività. 

«Una volta la selezione avveniva un po’ casualmente, si metteva un cartello nei dintorni della fabbrica e la gente arrivava» dice Rosario Rasizza, ad di Openjobmetis e presidente di Assosomm, l’Associazione italiana delle agenzie per il lavoro. «Oggi il candidato dev’essere ricercato, attratto, motivato a scegliere la propria azienda, soprattutto se ha una professionalità nelle mani o nella testa. L’imprenditore deve capire che anche se sa fare il miglior tondino a Brescia o la miglior scarpa nelle Marche, non è così scontato che sia in grado di capire quali sono le tecniche per ricercare e selezionare una persona, né che sappia come rendersi più attrattivo». La realtà è che nelle aziende, specie in quelle piccole, a volte manca l’abc. «Spesso il sito web non è aggiornato, banalmente manca una pagina dove il candidato possa inserire il curriculum» nota Rasizza, «magari non c’è nessuno che si occupi del personale, e i colloqui li fa qualcuno della contabilità o dell’amministrazione che non ha nessuna competenza specifica per fare una distinzione netta tra le hard skill e le soft skill, molto richieste oggi nelle aziende». Vista la scarsità dell’offerta, per avere successo le capacità di ricerca devono essere molto sviluppate. «I candidati più richiesti bisogna saperli trovare nei luoghi dove si ritrovano» sottolinea l’ad di Openjobmetis. «Per esempio quelli del mondo It digital non è che si trovino mettendo un semplice annuncio sui motori di ricerca: bisogna andarli a cercare nei siti che parlano di tecnologia, mettere gli annunci nelle riviste specializzate. Un ingegnere gestionale, meccanico o informatico non ha interesse a farsi trovare: se vuole cambiare lavoro manda tre curriculum mirati, non ha bisogno che qualcuno lo chiami. Solo chi non ha competenze particolari deve sparare un po’ nel mucchio, rendersi visibile con la speranza che qualcuno intuisca le sue potenzialità».

Secondo il sistema informativo Excelsior, la difficoltà nel trovare i lavoratori aumenta esponenzialmente nel caso delle figure più richieste: a gennaio supera il 70% per gli specialisti nelle scienze della vita, sfiora il 68% nel caso dei meccanici artigianali, montatori e riparatori, mentre anche fonditori, saldatori e lattonieri (66,5%) sono più difficili da trovare dei dirigenti (66,1%). Nel 2022 un forte shortage ha riguardato ingegneri elettronici e in telecomunicazioni, ma anche medici e infermieri. «Nel 2023 cresceranno tra il 15% e il 25% le occasioni per chi lavora nel settore IT, Digital, Ingegneristico e delle Infrastrutture» dice Davide Boati, Executive Director di Hunters Group, società di ricerca e selezione di personale. «Per attrarre e trattenere i migliori talenti, le aziende dovranno ripensare i processi di selezione, ma soprattutto alla loro proposta di valore nel lungo periodo, valutando attentamente come la cultura aziendale viene percepita dai propri dipendenti e come impatta sul loro benessere». Le figure più richieste nel 2023 per Hunters Group sono quelle di digital marketplace expert, cybersecurity consultant, direttore tecnico nel settore infrastrutture/construction, automation manager, business developer nel settore energy. Il problema è che pochi giovani escono dal sistema della formazione con questo tipo di competenze tra il digitale, l’ingegneristico e la meccanica specializzata, cui si aggiunge il campo medico. Nel 2022, per il sistema informativo Excelsior la difficoltà di reperimento ha riguardato il 47% dei laureati richiesti dalle aziende. In testa tra le lauree che si fa più fatica a trovare tra i curricula quelle di indirizzo sanitario e paramedico (65%), seguite da quelle in scienze matematiche, fisiche e informatiche (60%) e in ingegneria civile e architettura (49%).

 

A incidere è anche un certo atteggiamento culturale delle famiglie italiane, tra l’altro spesso prevenute nei confronti di determinate professioni. «Quale genitore incoraggia il proprio figlio ad avviarsi a un mestiere, per esempio all’attività di riparatore di biciclette elettriche? Eppure ce ne sarà sempre più bisogno» osserva Rasizza. «Spesso vado nelle quinte superiori e chiedo ai ragazzi cosa vogliono fare. La risposta più frequente è: boh? In pochi hanno un sogno, ed è colpa di noi genitori, che siamo sempre pronti a rispondere subito alle loro domande quando ai miei tempi la risposta era: arrangiati, attivati, inventati. E quando un ragazzo ha il coraggio di andare a fare 6 mesi all’estero, per esempio in quarta superiore, la prima cosa che la mamma gli chiede la sera non è com’è andata la giornata, quali nuove competenze ha appreso. La prima domanda è: fa freddo? E la seconda: cos’hai mangiato? Tendenzialmente la mamma italiana immagina sempre il figlio in un posto freddo dove non si mangia niente… Noi genitori, forse con un senso di colpa atavico, cerchiamo di mettere i figli nelle condizioni migliori senza sapere che così facciamo il loro male. Dovremmo essere istruttori di volo ma poi devono guidare loro, non possiamo essere copiloti». 

Uno strumento sempre più utilizzato a disposizione delle aziende, così come dei candidati, è LinkedIn, piazza digitale per eccellenza di incontro tra domanda e offerta di lavoro, che in Italia ha superato i 17 milioni di utenti iscritti – nel mondo sono 875 milioni. «Ci sono tre elementi fondamentali che le aziende dovrebbero sempre mettere in campo quando fanno una ricerca di lavoro» dice Francesca Lanzara, account director talent solutions di LinkedIn. «Prima di tutto definire quali sono le skill che una persona deve avere per avere successo in quel determinato contesto. In secondo luogo strutturare un ambiente lavorativo che possa fare in modo che questa persona diventi effettivamente un successo in azienda. Infine iniziare la loro ricerca comunicando nel modo più chiaro possibile quali sono le caratteristiche richieste sia dal punto di vista delle hard che delle soft skill, che in questi ultimi anni sono diventate fondamentali». Competenze che sono in rapida evoluzione. «Le caratteristiche delle figure che le aziende stanno cercando sono cambiate tantissimo» rimarca Lanzara, «dopo la pandemia abbiamo assistito a circa un 25% di trasformazione delle skill richieste per le posizioni più ambite. Se il ritmo del cambiamento dovesse restare lo stesso, nel 2025 saremo in una forbice tra il 41 e il 49%». Il problema è che si tratta di figure cercate da tutti. «Questi professionisti sono un numero limitato e li stanno cercando tutti in qualunque campo: banking, lusso, farmaceutico, industria pesante… Mi riferisco per esempio a figure digitali, esperti di cybersecurity, programmatori. Vediamo un numero altissimo di posizioni di questo tipo aperte, in tanti settori diversi». Di qui l’esigenza per le aziende di rendersi attrattive. «Si tratta di creare un ambiente idoneo a poter accogliere questo tipo di figure» mette in evidenza l’account director talent solutions di LinkedIn, «come ha scritto McKinsey, la tipologia di ambiente che cerca un professionista del mondo digitale è del tutto peculiare, diversa da quella che cercano altri. Lo smartworking è molto di moda, ma conta anche tantissimo la formazione: queste persone si aspettano di crescere, di fare carriera, di essere aggiornate, altrimenti da qui a 2-3 anni le loro competenze, che oggi sono appetibili, diventeranno obsolete».

Secondo il Cegos observatory barometer “Transformations, skills & learning”, survey annuale realizzata dal gruppo Cegos, tra i principali player nel Learning & Development, il 78% dei lavoratori dipendenti italiani sarebbe disposto a prendere in considerazione un cambio totale di carriera. Questo da un lato rimanda al fenomeno della great resignation: secondo dati Anpal Servizi, nella prima metà del 2022 le dimissioni volontarie sono state un milione; per l’Osservatorio del Politecnico di Milano sulle risorse umane, nell’ultimo anno il tasso di turnover è aumentato per il 73% delle aziende, con il 45% degli occupati che dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione di farlo da qui a 18 mesi. Ma dall’altro proprio alla crescente necessità dei percorsi di reskilling e upskilling, sempre più diffusi specie nelle aziende strutturate così come rilevato anche dal Cnel. Il 52% degli addetti HR sta attuando o intende mettere in atto un supporto ai dipendenti per aumentare le competenze (upskilling), il 48% per sviluppare le loro competenze in un altro lavoro in vista di una mobilità interna (reskilling). Numeri importanti, ma in ritardo rispetto alla media degli altri Paesi oggetto della survey di Cegos (Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Singapore e Brasile), al 66% per l’upskilling e al 60% per il reskilling. C’è insomma ancora molto da fare, se è vero che il 90% dei dipendenti è disposto ad autoformarsi, ma solo il 40% ritiene che l’organizzazione soddisfi le proprie esigenze di formazione “just in time” e il 42% che la risposta arrivi troppo tardi rispetto a quando si è manifestato il bisogno formativo. «Di fronte ai cambiamenti in atto e al crescente interesse dei dipendenti nello sviluppo delle proprie competenze» commenta Emanuele Castellani, Ceo di Cegos Italy & Cegos Apac, «le organizzazioni devono essere in grado di offrire una gamma di opportunità di formazione, mobilità e riqualificazione dinamiche e chiare e devono renderle anche più visibili internamente per incoraggiare un maggiore coinvolgimento dei dipendenti». «LinkedIn suggerisce alle aziende di strutturare percorsi di formazione e di crescita delle persone» aggiunge Lanzara, «in modo da creare posizioni nuove in linea con i cambiamenti del mondo del lavoro, e assicurare ai nuovi ingressi un percorso di internal mobility che permetta di aggiornarsi in modo adeguato». A questo scopo, la piattaforma LinkedIn Learning dispone di 17mila corsi ora sottotitolati in Italiano, in grado di supportare i percorsi formativi aziendali.

 

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